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Registrare il numero di cellulare altrui in siti internet costituisce reato

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La registrazione del numero di cellulare in siti internet senza il consenso dell’interessato, costituisce condotta che, se compiuta al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, integra la fattispecie di reato

La vicenda
L’imputata aveva iscritto la persona offesa in una chat erotica, invitando i frequentatori a telefonare al numero di cellulare indicato per ricevere prestazioni sessuali.

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La Corte d’appello di Caltanissetta ne aveva confermato la condanna a nove mesi di reclusione e al risarcimento dei danni in favore della parte civile, liquidati in Euro 1.700,00, per il reato di trattamento illecito di dati personali, di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167.

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Per la cassazione della sentenza l’imputata ha proposto ricorso denunziando la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione all’affermazione della penale responsabilità a suo carico.

Ma i giudici della Terza Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 46376/2019) hanno dichiarato il ricorso inammissibile.
L’affermazione della responsabilità penale dell’imputata era fondata su una pluralità di elementi probatori tra i quali la stessa confessione, successivamente ritrattata, di avere registrato il numero di utenza cellulare della persona offesa sulla chat erotica.

Il punto di partenza dell’esame della vicenda compiuto dagli Ermellini è stato quello di ribadire l’importanza della modifica legislativa della norma sanzionatoria di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167 a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 101 del 2018.

L’art. 167 del codice della privacy
Tale norma dispone che: “1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, operando in violazione di quanto disposto dagli artt. 123, 126 e 130 o dal provvedimento di cui all’art. 129 arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi.

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2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, procedendo al trattamento dei dati personali di cui agli artt. 9 e 10 del Regolamento in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2-sexies e 2-octies, o delle misure di garanzia di cui all’art. 2-septies ovvero operando in violazione delle misure adottate ai sensi dell’art. 2-quinquiesdecies arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da uno a tre anni.

3. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la pena di cui al comma 2 si applica altresì a chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, procedendo al trasferimento dei dati personali verso un paese terzo o un’organizzazione internazionale al di fuori dei casi consentiti ai sensi degli artt. 45, 46 o 49 del Regolamento, arreca nocumento all’interessato“.

La nozione di nocumento secondo il codice della privacy
A differenza della previgente versione, la disposizione di cui all’art. 167 comma 1, non fa più riferimento al trattamento, ma introduce l’elemento del danno all’interessato che connota anche il dolo specifico.

Ciò posto la Cassazione ha ricordato che nel reato di trattamento illecito di dati personali previsto dall’art. 167, il nocumento è costituito dal pregiudizio, anche di natura non patrimoniale, subito dalla persona cui si riferiscono i dati quale conseguenza dell’illecito trattamento (Sez. 3, n. 29549 del 07/02/2017).

Il requisito del nocumento è tuttora richiesto, con l’ulteriore specificazione, rispetto al passato, che lo stesso deve essere arrecato all’interessato e costituisce elemento costitutivo del reato.

Riconosciutane, dunque, la natura di elemento costitutivo del reato, ad avviso della Corte, ai fini della punibilità non è sufficiente che il nocumento si ponga quale conseguenza non voluta, ancorché prevista o prevedibile della condotta, essendo necessario che esso sia previsto e voluto dall’agente come conseguenza della propria azione o quanto meno previsto ed accettato in tutte quelle ipotesi in cui non si identifichi con il fine dell’azione stessa in quanto finalizzata, ad esempio, a trarre profitto dall’illecito trattamento dei dati (Sez. 3, n. 40103 del 05/02/2015).

La questione giuridica
Nel caso in esame, la condotta ascritta all’imputata di avere registrato l’utenza cellulare di altra persona, senza il suo consenso, su chat erotiche con invito a contattarla per le prestazioni sessuali, integrava pacificamente, secondo la legge in vigore al momento del fatto, una ipotesi di trattamento dei dati personali, essendo l’utenza telefonica uno di questi.

Il punto controverso era tuttavia verificare se a seguito del mutato quadro normativo, il fatto contestato potesse considerarsi ancora reato e, in caso positivo, individuare la norma sanzionatoria applicabile ai sensi dell’art. 2 c.p..

Ebbene il Collegio ha risolto la questione affermando che l’avere diffuso il numero di telefono cellulare mediante il suo inserimento in chat a contenuto erotico, in assenza di consenso dell’interessata, costituisce, ancora oggi, fatto di reato punito dall’art. 167 comma 1 citato, in quanto la condotta contestata è avvenuta in violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 123, comma 5, come adeguato al Regolamento, richiamata dalla norma sanzionatoria citata.

Il principio di diritto e la modifica del trattamento sanzionatorio
Ne consegue che “la registrazione dell’utenza cellulare in siti internet di un soggetto in assenza di consenso dell’interessato, requisito previsto in via generale dall’art. 6 del GDPR, costituisce condotta che, se compiuta al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, e arreca nocumento all’interessato, integra la fattispecie di reato anche nella nuova configurazione in quanto condotta in violazione di quanto disposto dall’art. 125, comma 5 del medesimo decreto, che consente il trattamento del dato del traffico telefonico limitatamente ai soli soggetti autorizzati e per i limitati fini ivi indicati”.

I giudici della Suprema Corte hanno tuttavia, annullato la sentenza impugnata perché non corretta sotto il profilo del trattamento sanzionatorio. Ed invero la pena attualmente indicata nel novellato art. 167, è più favorevole, essendo prevista la reclusione da sei mesi ad anno e sei mesi, in luogo della previgente reclusione da sei a ventiquattro mesi.

Tale trattamento sanzionatorio più favorevole doveva trovare applicazione, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 4, anche al caso in esame, ed infatti, la pena è stata definitivamente rideterminata nella misura di sette mesi e sei giorni di reclusione.

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