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Insulti e critiche tra chat e social: quando scatta il licenziamento e quando si rischia la diffamazione

Insulti e critiche tra chat e social: quando scatta il licenziamento e quando si rischia la diffamazione
Scritto da gestore

Viviamo in un’epoca in cui le parole viaggiano veloci e restano incise negli archivi digitali più di quanto immaginiamo. Un insulto scritto su WhatsApp, un commento polemico su Facebook o una recensione negativa lasciata su un portale possono trasformarsi in un problema serio, fino a portare a un licenziamento o addirittura a un procedimento penale per diffamazione.

Questo tema è sempre più attuale perché la distinzione tra libertà di espressione, diritto di critica e abuso della parola online non è sempre chiara agli utenti. Vediamo quindi, con l’aiuto della giurisprudenza italiana e delle norme di legge, dove si trova il confine.

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Le chat private: tutela della riservatezza

Il Codice Civile (art. 2104 e 2105) obbliga i lavoratori a rispettare la diligenza e la fedeltà verso il datore di lavoro. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha più volte stabilito che una chat privata tra colleghi non può essere equiparata a una piazza pubblica.

  • Cassazione n. 21965/2018: gli insulti scambiati in un gruppo WhatsApp privato non costituiscono giusta causa di licenziamento, poiché protetti dal principio di riservatezza delle comunicazioni.
  • In questo contesto, il datore non può utilizzare i messaggi come prova disciplinare, a meno che non emergano reati o gravi violazioni di legge.

Quindi: una battuta inopportuna in una chat privata resta confinata in quella sfera e non può legittimare un provvedimento estremo come il licenziamento.


Le chat aziendali e i gruppi di lavoro

Diverso è il discorso se gli insulti o le offese vengono scritti in gruppi WhatsApp aziendali, o comunque in canali di comunicazione legati direttamente al lavoro.

  • Cassazione n. 21043/2025: è legittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente che ha insultato colleghi e datore di lavoro in un gruppo WhatsApp creato per finalità organizzative aziendali.

In questi casi, la chat è assimilata a un luogo di lavoro virtuale. Gli insulti non sono più privati ma incidono sul clima aziendale e sul rapporto di fiducia tra datore e dipendente.

Quindi: occhio a come scrivi in gruppi di lavoro. Un commento impulsivo può costarti il posto.


I social network: libertà di critica o diffamazione?

Quando i contenuti vengono pubblicati su Facebook, Instagram, TikTok o altri social, la questione cambia radicalmente. La Cassazione e diversi Tribunali hanno chiarito che:

  • Un post visibile a terzi è da considerarsi comunicazione pubblica.
  • Pertanto, gli insulti scritti online integrano il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa o altro mezzo di pubblicità (art. 595 c.p., comma 3).

Esempio: un ex dipendente che scrive “La mia azienda è gestita da incompetenti e ladri” su un post pubblico rischia non solo il licenziamento (se ancora in organico), ma anche una querela penale per diffamazione.

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Critica legittima vs diffamazione

La Costituzione Italiana, art. 21 tutela la libertà di manifestazione del pensiero. Tuttavia, la giurisprudenza ha individuato tre limiti fondamentali che distinguono la critica legittima dalla diffamazione:

  1. Verità dei fatti: le affermazioni devono corrispondere al vero.
  2. Interesse pubblico: deve esserci un interesse a informare o esprimere un giudizio.
  3. Continenza espressiva: le parole devono essere misurate, evitando insulti gratuiti.

Dire “Il servizio clienti dell’azienda X è lento, non risponde mai alle email” rientra nel diritto di critica.
Scrivere “Sono dei ladri, non fidatevi, truffatori” può integrare diffamazione, con conseguenze legali gravi.


Se sei un dipendente

Per chi è ancora in organico, i rischi sono doppi:

  • Sul piano lavorativo, si può incorrere in licenziamento per giusta causa (art. 2119 c.c.), perché l’insulto mina la fiducia tra datore e lavoratore.
  • Sul piano penale, se il commento è pubblico, scatta il rischio di querela per diffamazione.

Se non sei un dipendente

Anche un ex lavoratore o un semplice cliente deve fare attenzione.
La diffamazione non richiede un rapporto di lavoro: basta la pubblica offesa alla reputazione altrui.

La Cassazione ha più volte ribadito che Facebook è un luogo virtuale pubblico: scrivere in un gruppo con centinaia di iscritti equivale a parlare in una piazza affollata.


Perché occorre prudenza

In un mondo iperconnesso, basta un commento scritto in un attimo di rabbia per compromettere:

  • la propria reputazione personale,
  • la propria posizione lavorativa,
  • e persino la libertà personale, in caso di denuncia penale.

Ti possiamo aiutare

Se hai dubbi su commenti pubblicati o messaggi ricevuti, è importante muoversi con cautela.
Con i nostri servizi puoi:

Ricorda: la parola scritta online ha lo stesso peso, se non maggiore, di quella pronunciata dal vivo. Proteggere la propria comunicazione significa proteggere se stessi.

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Appendice: casi reali di licenziamenti e condanne per insulti online

1. Insulti al datore di lavoro su Facebook

Un dipendente di una grande azienda del Nord Italia era solito pubblicare su Facebook post offensivi nei confronti del datore di lavoro, visibili ai colleghi e a clienti.

  • L’azienda lo ha licenziato per giusta causa.
  • Il Tribunale ha confermato la legittimità del provvedimento, sottolineando che la pubblicazione su Facebook equivale a rendere la dichiarazione pubblica e diffamatoria (art. 595 c.p.).

👉 Le parole scritte su un social non sono mai private, se accessibili anche solo a una cerchia ampia di persone.


2. Offese in un gruppo WhatsApp aziendale

Un dipendente aveva utilizzato un gruppo WhatsApp creato per coordinare i turni lavorativi per insultare un collega e denigrare i superiori.

  • L’azienda ha proceduto con il licenziamento.
  • Il Tribunale ha ritenuto giusta la misura disciplinare, perché la chat era strumento di lavoro e le offese hanno compromesso il clima aziendale.

👉 In questo caso, la chat non è stata considerata privata ma estensione del luogo di lavoro.


3. Diffamazione tramite recensioni online

Un ex cliente insoddisfatto aveva lasciato su Google Maps una recensione accusando un’azienda di essere “truffatori” e “delinquenti”.

  • L’impresa ha agito in giudizio e il Tribunale ha riconosciuto la diffamazione.
  • La persona è stata condannata a un risarcimento danni e alla rimozione del contenuto.

👉 Una critica è lecita, ma usare termini gravemente offensivi senza prove costituisce reato.


4. Insulti in chat privata non punibili

Un gruppo ristretto di colleghi si scambiava messaggi WhatsApp contenenti insulti al capo.

  • Uno dei partecipanti ha condiviso le chat con il datore.
  • Il Tribunale, però, ha annullato il licenziamento, affermando che le comunicazioni private sono protette dal diritto alla riservatezza (art. 15 Costituzione, art. 8 CEDU).

👉 La differenza è nel contesto: una chat chiusa resta privata, un social aperto diventa pubblico.


Ti possiamo aiutare

Se anche tu hai ricevuto insulti, recensioni false o contenuti diffamatori online, ricorda che puoi agire in modo concreto:

Le sentenze parlano chiaro: quello che scrivi online può cambiare la tua vita lavorativa e legale.

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