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TUTELA DELLA REPUTAZIONE ON-LINE

La tutela della reputazione va assicurata anche a chi subisce accuse diffamatorie su Instagram, attraverso la manipolazione di un’immagine. Di conseguenza, se i giudici nazionali non provvedono a punire chi lancia accuse false sul social network – classificando le informazioni come giudizi di valore, quando in realtà sono dichiarazioni di fatto – è certa la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che assicura il diritto al rispetto della vita privata, incluso quello alla reputazione. Quindi, via l’immagine diffamatoria. Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo con la sentenza depositata il 7 novembre, che è valsa una condanna all’Islanda (ricorso n. 24703/15). A rivolgersi ai giudici internazionali è stato un blogger e scrittore islandese che era stato accusato di stupro. L’uomo era stato prosciolto, ma su Instagram era stata poi diffusa una sua immagine, frutto di una manipolazione della copertina di un giornale, accompagnata da una frase offensiva che lo definiva «stupratore». L’autore si era difeso sostenendo che l’immagine doveva circolare solo tra un gruppo limitato di persone e che era stata diffusa senza il suo consenso. I tribunali nazionali non avevano quindi accolto la richiesta di risarcimento da parte del blogger, sostenendo che la riproduzione dell’immagine con la didascalia contenesse un giudizio di valore. Così, al blogger non è rimasto altro che rivolgersi alla Corte europea, che gli ha dato ragione. È vero – osservano i giudici internazionali – che il blogger era un controverso personaggio pubblico e che, in quanto tale, può essere dunque sottoposto a critiche ad ampio raggio rispetto a un privato: ma ciò non vuol dire che non abbia diritto alla tutela della reputazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo mette in primo piano la circostanza che la diffusione era avvenuta via internet e comporta maggiori rischi per il diritto alla reputazione rispetto a quella che avviene attraverso la stampa. Per Strasburgo, in ogni caso, l’errore di fondo è stato considerare un giudizio di valore l’espressione utilizzata da chi aveva postato l’immagine su Instagram. Se certo compete alle autorità nazionali dare una valutazione su ciò che è da classificare come una dichiarazione di fatto o un giudizio di valore, la Corte europea ha ritenuto di intervenire limitando il margine di apprezzamento degli Stati. Chiarendo cioè che l’uso di espressioni quali “stupratore” non può, al di là del contesto, essere considerata come un’opinione. È stata quindi sbagliata la valutazione dei tribunali islandesi, che avrebbero dovuto constatare la mancanza di una base fattuale, visto che le accuse di stupro nei confronti del blogger erano state archiviate. La Corte non esclude che una dichiarazione di un fatto possa, in un determinato contesto, essere considerata un giudizio di valore. Ma sottolinea che va sempre richiesta una base fattuale sufficiente. Poco importa, inoltre, il comportamento del diffamato: potrà anche aver assunto una condotta provocatoria, ma questo non giustifica l’accusa di un atto criminale senza un supporto “concreto”. La sentenza di Strasburgo conclude dunque che è stato violato l’articolo 8 della Convenzione europea, proprio perché i giudici nazionali non hanno raggiunto un giusto equilibrio tra i diversi diritti in gioco: da un lato, la libertà di espressione e, dall’altro, la tutela della reputazione privata.

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