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Privacy – Cassazione Penale: pubblicare in una chat il numero di uno stalker è reato

La Corte di Cassazione ha stabilito che la diffusione in una chat del numero di telefono di un terzo integra la fattispecie illecita di cui all’articolo 167 del Codice Privacy, costituendo lo stesso un dato personale, e non costituisce scriminante della condotta il fatto di aver agito in stato d’ira determinato dal fatto ingiusto del terzo, in quanto la condotta della provocazione costituisce una causa di esclusione della colpevolezza solo in relazione al reato di diffamazione.

 

Il caso in esame

La Cassazione si è pronunciata a seguito del ricorso proposto da un soggetto, per il tramite del proprio difensore, avverso la sentenza di merito con cui lo stesso era stato condannato alla pena di mesi quattro di reclusione in quanto ritenuto responsabile del reato di cui all’articolo 167, comma 1, del Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (“Trattamento illecito di dati”). La condotta incriminata consisteva nell’aver pubblicato in una chat il numero di telefono di un terzo.

Nel ricorso, l’imputato lamentava violazione di legge, in ordine alla mancata assunzione di una prova decisiva, ossia i tabulati telefonici, dai quali avrebbe potuto facilmente rilevarsi la sussistenza di una reiterata condotta molesta posta in essere dalla persona offesa ai danni dell’imputato, consistente nella effettuazione di telefonate e nell’invio di messaggi, aventi ad oggetto anche richieste di natura sessuale. La condotta dell’imputato – il quale aveva anche ammesso l’addebito – sarebbe stata posta in essere, dunque, “per reazione rispetto alle reiterate molestie telefoniche”.

 

La decisione della Suprema Corte

La Cassazione ha ritenuto il ricorso inammissibile, per manifesta infondatezza dei motivi di gravame.

In particolare, con riferimento alla mancata assunzione dei tabulati telefonici, i giudici di legittimità hanno rilevato come il ricorrente non avesse chiesto in appello la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ai sensi dell’articolo 603 del Codice di Procedura Penale, limitandosi a prospettare un’assenza di prova sulla responsabilità per la mancata acquisizione dei tabulati. L’assenza di una specifica richiesta di rinnovo dell’istruzione dibattimentale in appello determinava l’inammissibilità del motivo proposto con il ricorso per cassazione.

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Tuttavia, anche l’accertamento del fatto ingiusto della persona offesa non avrebbe scriminato la condotta del prevenuto, in quanto la provocazione, riconosciuta come circostanza attenuante comune dall’articolo 62, comma 1, n. 2, del Codice Penale, è prevista come causa di esclusione della colpevolezza solo in relazione al reato di diffamazione di cui all’articolo 595 del Codice Penale, per espressa previsione del successivo articolo 599.

Pertanto, la condotta contestata all’imputato, integrante il reato di cui all’articolo 167, comma 1, del Decreto Legislativo n. 196/2003, non può ritenersi non punibile per il solo fatto di essere stata determinata dallo stato d’ira per il fatto ingiusto della persona offesa, in quanto scriminante riconosciuta dall’ordinamento solo in relazione al reato di diffamazione. In relazione al reato de quo la provocazione opererebbe esclusivamente come circostanza attenuante.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione in favore della persona offesa, costituitasi parte civile, delle spese del grado.

(Corte di Cassazione – Sezione Terza Penale, Sentenza 4 settembre 2018, n. 39682)

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