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La tecnologia sta minando la nostra fiducia?

Internet, Icann: in corso in tutto il mondo massicci attacchi informatici
Scritto da gestore

Negli ultimi 200 anni abbiamo assistito al susseguirsi di un turbinio di invenzioni tecnologiche. Gli aeroplani ci hanno permesso di eliminare le distanze, la risonanza magnetica ci ha consentito di esplorare i meccanismi più nascosti del nostro cervello, Internet ha reso tutto più facile da reperire e ora siamo più connessi che mai.
I limiti della nostra vita fisica sono sempre meno definiti, tanto più ci avviciniamo alla realtà virtuale, e la nostra dipendenza dalle app e dai servizi diventa totale. Eppure, tra lo scandalo di Cambridge Analytica e il famoso Panama Papers, nella società moderna si sta rapidamente diffondendo una mancanza di fiducia generale nella tecnologia che diventa un ulteriore punto di forza per i criminali informatici, permettendo loro di realizzare facili guadagni.
Le informazioni riservate di politici e diplomatici, un tempo del tutto al sicuro, oggi vengono estorte ed esposte pubblicamente online e più dettagli segreti rivelano, più gli hacker sono in grado di manipolare l’opinione pubblica.
Un trend pericoloso, che oggi gli Stati stessi tendono a cavalcare. Lo dimostra, ad esempio, il report di Robert Mueller che contiene “prove decisive” di come la Russia abbia interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016, attraverso una campagna coordinata di disinformazione e tramite l’hacking delle email del team elettorale di Hillary Clinton. Oltre a diffondere una generale sfiducia nella capacità delle aziende private di proteggere i dati, questa interferenza calcolata tende a manipolare le opinioni dei singoli cittadini, distruggendo la fiducia nel sistema vero e proprio della democrazia.
Politica a parte, minare la fiducia oggi diventa una questione che ha a che fare sempre più con la vita privata di ogni singolo cittadino; di recente, Singapore è stata vittima di tre gravi data breach in ambito sanitario, l’ultima delle quali ha implicato l’accesso illegale a 800.000 dati personali appartenenti a donatori di sangue. La successione degli attacchi e la loro portata ha alimentato timori crescenti rispetto alla capacità del Paese di proteggere le informazioni sensibili della sua popolazione.
Anche il sistema sanitario nazionale britannico ha subito un violento attacco hacker lo scorso anno ad opera del ransomware Wannacry, a testimonianza della crescente fragilità di servizi critici, sempre più digitalizzati. L’infrastruttura che sostiene i servizi, infatti, è stata anch’essa rivoluzionata dalla tecnologia moderna: in risposta alla crescente consapevolezza e confidenza dei consumatori, la tecnologia ha consentito al settore energetico e a quello delle utility di offrire servizi più affidabili, di migliore qualità e maggiormente sostenibili. Eppure, nel 2015, un sofisticato attacco informatico alla rete elettrica dell’Ucraina ha causato un black-out in tutta Kiev, lasciando i cittadini al buio per oltre 6 ore. In definitiva, è proprio la trasformazione digitale che permea la nostra epoca ad averci traghettato in un’era in cui i rischi informatici per le infrastrutture possono tradursi in effetti tangibili sul mondo fisico.
In un contesto così critico, la diffusione capillare della tecnologia in tutti gli aspetti della società comporta un onere supplementare per gli Stati che devono cercare urgentemente di ricostruire la fiducia dei cittadini nella propria capacità di proteggere i dati e offrire servizi affidabili. Se da una parte l’abitudine pericolosa e diffusa di prendere in considerazione la sicurezza solo a posteriori ha innegabilmente reso più complesse le sfide di sicurezza, la soluzione non può di certo essere il tornare indietro, all’era analogica.
Le sfide della cyber difesa si possono e si devono necessariamente affrontare, e la chiave per farlo è l’innovazione. È tempo di far sì che la tecnologia stessa diventi parte della soluzione e questo può avvenire solo con l’intelligenza artificiale.
L’essere umano, infatti, rimane l’anello debole e il maggiore rischio in termini di sicurezza, per questo gli attacchi di spear-phishing, cioè la pratica di infettare i sistemi tramite l’invio di malware via posta elettronica ai dipendenti meno attenti, continuano a essere il modo più efficace di infiltrarsi in un’organizzazione.
A differenza degli esser umani,l’intelligenza artificiale è sempre attiva: può elaborare serie di dati molto vaste e trarre insight significativi in pochi secondi. In questo modo, l’IA sovrintende alla capacità dei responsabili della sicurezza di rilevare e contrastare alcune delle minacce informatiche più avanzate. Ecco perché dobbiamo affidarci all’intelligenza artificiale, che ha il potere di proteggere l’infrastruttura digitale su cui si basano l’intero sistema sanitario, la democrazia e i servizi critici. L’AI ha già dimostrato, ad esempio, di essere in grado di fermare un attacco ransomware in atto, e lo ha fatto consentendo di rivelare le campagne di spionaggio più sottili promosse da alcune Nazioni, senza che si rendesse necessario l’intervento umano.
Tuttavia, ci vuole tempo perché le persone imparino a fidarsi così tanto della tecnologia da consentire che processi democratici e infrastrutture critiche siano protetti in maniera totalmente autonoma. Per non rischiare che l’IA porti a ulteriori risentimenti e diffidenze, chi innova dovrà prendere atto del percorso che è necessario avviare e integrare nelle tecnologie del futuro delle funzionalità che alimentino la fiducia degli esseri umani negli algoritmi.

Negli ultimi 200 anni abbiamo assistito al susseguirsi di un turbinio di invenzioni tecnologiche. Gli aeroplani ci hanno permesso di eliminare le distanze, la risonanza magnetica ci ha consentito di esplorare i meccanismi più nascosti del nostro cervello, Internet ha reso tutto più facile da reperire e ora siamo più connessi che mai.
I limiti della nostra vita fisica sono sempre meno definiti, tanto più ci avviciniamo alla realtà virtuale, e la nostra dipendenza dalle app e dai servizi diventa totale. Eppure, tra lo scandalo di Cambridge Analytica e il famoso Panama Papers, nella società moderna si sta rapidamente diffondendo una mancanza di fiducia generale nella tecnologia che diventa un ulteriore punto di forza per i criminali informatici, permettendo loro di realizzare facili guadagni.
Le informazioni riservate di politici e diplomatici, un tempo del tutto al sicuro, oggi vengono estorte ed esposte pubblicamente online e più dettagli segreti rivelano, più gli hacker sono in grado di manipolare l’opinione pubblica.
Un trend pericoloso, che oggi gli Stati stessi tendono a cavalcare. Lo dimostra, ad esempio, il report di Robert Mueller che contiene “prove decisive” di come la Russia abbia interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016, attraverso una campagna coordinata di disinformazione e tramite l’hacking delle email del team elettorale di Hillary Clinton. Oltre a diffondere una generale sfiducia nella capacità delle aziende private di proteggere i dati, questa interferenza calcolata tende a manipolare le opinioni dei singoli cittadini, distruggendo la fiducia nel sistema vero e proprio della democrazia.
Politica a parte, minare la fiducia oggi diventa una questione che ha a che fare sempre più con la vita privata di ogni singolo cittadino; di recente, Singapore è stata vittima di tre gravi data breach in ambito sanitario, l’ultima delle quali ha implicato l’accesso illegale a 800.000 dati personali appartenenti a donatori di sangue. La successione degli attacchi e la loro portata ha alimentato timori crescenti rispetto alla capacità del Paese di proteggere le informazioni sensibili della sua popolazione.
Anche il sistema sanitario nazionale britannico ha subito un violento attacco hacker lo scorso anno ad opera del ransomware Wannacry, a testimonianza della crescente fragilità di servizi critici, sempre più digitalizzati. L’infrastruttura che sostiene i servizi, infatti, è stata anch’essa rivoluzionata dalla tecnologia moderna: in risposta alla crescente consapevolezza e confidenza dei consumatori, la tecnologia ha consentito al settore energetico e a quello delle utility di offrire servizi più affidabili, di migliore qualità e maggiormente sostenibili. Eppure, nel 2015, un sofisticato attacco informatico alla rete elettrica dell’Ucraina ha causato un black-out in tutta Kiev, lasciando i cittadini al buio per oltre 6 ore. In definitiva, è proprio la trasformazione digitale che permea la nostra epoca ad averci traghettato in un’era in cui i rischi informatici per le infrastrutture possono tradursi in effetti tangibili sul mondo fisico.
In un contesto così critico, la diffusione capillare della tecnologia in tutti gli aspetti della società comporta un onere supplementare per gli Stati che devono cercare urgentemente di ricostruire la fiducia dei cittadini nella propria capacità di proteggere i dati e offrire servizi affidabili. Se da una parte l’abitudine pericolosa e diffusa di prendere in considerazione la sicurezza solo a posteriori ha innegabilmente reso più complesse le sfide di sicurezza, la soluzione non può di certo essere il tornare indietro, all’era analogica.
Le sfide della cyber difesa si possono e si devono necessariamente affrontare, e la chiave per farlo è l’innovazione. È tempo di far sì che la tecnologia stessa diventi parte della soluzione e questo può avvenire solo con l’intelligenza artificiale.
L’essere umano, infatti, rimane l’anello debole e il maggiore rischio in termini di sicurezza, per questo gli attacchi di spear-phishing, cioè la pratica di infettare i sistemi tramite l’invio di malware via posta elettronica ai dipendenti meno attenti, continuano a essere il modo più efficace di infiltrarsi in un’organizzazione.
A differenza degli esser umani,l’intelligenza artificiale è sempre attiva: può elaborare serie di dati molto vaste e trarre insight significativi in pochi secondi. In questo modo, l’IA sovrintende alla capacità dei responsabili della sicurezza di rilevare e contrastare alcune delle minacce informatiche più avanzate. Ecco perché dobbiamo affidarci all’intelligenza artificiale, che ha il potere di proteggere l’infrastruttura digitale su cui si basano l’intero sistema sanitario, la democrazia e i servizi critici. L’AI ha già dimostrato, ad esempio, di essere in grado di fermare un attacco ransomware in atto, e lo ha fatto consentendo di rivelare le campagne di spionaggio più sottili promosse da alcune Nazioni, senza che si rendesse necessario l’intervento umano.
Tuttavia, ci vuole tempo perché le persone imparino a fidarsi così tanto della tecnologia da consentire che processi democratici e infrastrutture critiche siano protetti in maniera totalmente autonoma. Per non rischiare che l’IA porti a ulteriori risentimenti e diffidenze, chi innova dovrà prendere atto del percorso che è necessario avviare e integrare nelle tecnologie del futuro delle funzionalità che alimentino la fiducia degli esseri umani negli algoritmi.

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Negli ultimi 200 anni abbiamo assistito al susseguirsi di un turbinio di invenzioni tecnologiche. Gli aeroplani ci hanno permesso di eliminare le distanze, la risonanza magnetica ci ha consentito di esplorare i meccanismi più nascosti del nostro cervello, Internet ha reso tutto più facile da reperire e ora siamo più connessi che mai.
I limiti della nostra vita fisica sono sempre meno definiti, tanto più ci avviciniamo alla realtà virtuale, e la nostra dipendenza dalle app e dai servizi diventa totale. Eppure, tra lo scandalo di Cambridge Analytica e il famoso Panama Papers, nella società moderna si sta rapidamente diffondendo una mancanza di fiducia generale nella tecnologia che diventa un ulteriore punto di forza per i criminali informatici, permettendo loro di realizzare facili guadagni.
Le informazioni riservate di politici e diplomatici, un tempo del tutto al sicuro, oggi vengono estorte ed esposte pubblicamente online e più dettagli segreti rivelano, più gli hacker sono in grado di manipolare l’opinione pubblica.
Un trend pericoloso, che oggi gli Stati stessi tendono a cavalcare. Lo dimostra, ad esempio, il report di Robert Mueller che contiene “prove decisive” di come la Russia abbia interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016, attraverso una campagna coordinata di disinformazione e tramite l’hacking delle email del team elettorale di Hillary Clinton. Oltre a diffondere una generale sfiducia nella capacità delle aziende private di proteggere i dati, questa interferenza calcolata tende a manipolare

La tecnologia sta minando la nostra fiducia?
Gustafsson (Darktrace): se l’essere umano è ancora l’anello debole della sicurezza, l’Intelligenza Artificiale ha la capacità di proteggere l’infrastruttura digitale
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numero di 19/06/2019Idee e opinioni

Negli ultimi 200 anni abbiamo assistito al susseguirsi di un turbinio di invenzioni tecnologiche. Gli aeroplani ci hanno permesso di eliminare le distanze, la risonanza magnetica ci ha consentito di esplorare i meccanismi più nascosti del nostro cervello, Internet ha reso tutto più facile da reperire e ora siamo più connessi che mai.
I limiti della nostra vita fisica sono sempre meno definiti, tanto più ci avviciniamo alla realtà virtuale, e la nostra dipendenza dalle app e dai servizi diventa totale. Eppure, tra lo scandalo di Cambridge Analytica e il famoso Panama Papers, nella società moderna si sta rapidamente diffondendo una mancanza di fiducia generale nella tecnologia che diventa un ulteriore punto di forza per i criminali informatici, permettendo loro di realizzare facili guadagni.
Le informazioni riservate di politici e diplomatici, un tempo del tutto al sicuro, oggi vengono estorte ed esposte pubblicamente online e più dettagli segreti rivelano, più gli hacker sono in grado di manipolare l’opinione pubblica.
Un trend pericoloso, che oggi gli Stati stessi tendono a cavalcare. Lo dimostra, ad esempio, il report di Robert Mueller che contiene “prove decisive” di come la Russia abbia interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016, attraverso una campagna coordinata di disinformazione e tramite l’hacking delle email del team elettorale di Hillary Clinton. Oltre a diffondere una generale sfiducia nella capacità delle aziende private di proteggere i dati, questa interferenza calcolata tende a manipolare le opinioni dei singoli cittadini, distruggendo la fiducia nel sistema vero e proprio della democrazia.
Politica a parte, minare la fiducia oggi diventa una questione che ha a che fare sempre più con la vita privata di ogni singolo cittadino; di recente, Singapore è stata vittima di tre gravi data breach in ambito sanitario, l’ultima delle quali ha implicato l’accesso illegale a 800.000 dati personali appartenenti a donatori di sangue. La successione degli attacchi e la loro portata ha alimentato timori crescenti rispetto alla capacità del Paese di proteggere le informazioni sensibili della sua popolazione.
Anche il sistema sanitario nazionale britannico ha subito un violento attacco hacker lo scorso anno ad opera del ransomware Wannacry, a testimonianza della crescente fragilità di servizi critici, sempre più digitalizzati. L’infrastruttura che sostiene i servizi, infatti, è stata anch’essa rivoluzionata dalla tecnologia moderna: in risposta alla crescente consapevolezza e confidenza dei consumatori, la tecnologia ha consentito al settore energetico e a quello delle utility di offrire servizi più affidabili, di migliore qualità e maggiormente sostenibili. Eppure, nel 2015, un sofisticato attacco informatico alla rete elettrica dell’Ucraina ha causato un black-out in tutta Kiev, lasciando i cittadini al buio per oltre 6 ore. In definitiva, è proprio la trasformazione digitale che permea la nostra epoca ad averci traghettato in un’era in cui i rischi informatici per le infrastrutture possono tradursi in effetti tangibili sul mondo fisico.
In un contesto così critico, la diffusione capillare della tecnologia in tutti gli aspetti della società comporta un onere supplementare per gli Stati che devono cercare urgentemente di ricostruire la fiducia dei cittadini nella propria capacità di proteggere i dati e offrire servizi affidabili. Se da una parte l’abitudine pericolosa e diffusa di prendere in considerazione la sicurezza solo a posteriori ha innegabilmente reso più complesse le sfide di sicurezza, la soluzione non può di certo essere il tornare indietro, all’era analogica.
Le sfide della cyber difesa si possono e si devono necessariamente affrontare, e la chiave per farlo è l’innovazione. È tempo di far sì che la tecnologia stessa diventi parte della soluzione e questo può avvenire solo con l’intelligenza artificiale.
L’essere umano, infatti, rimane l’anello debole e il maggiore rischio in termini di sicurezza, per questo gli attacchi di spear-phishing, cioè la pratica di infettare i sistemi tramite l’invio di malware via posta elettronica ai dipendenti meno attenti, continuano a essere il modo più efficace di infiltrarsi in un’organizzazione.
A differenza degli esser umani,l’intelligenza artificiale è sempre attiva: può elaborare serie di dati molto vaste e trarre insight significativi in pochi secondi. In questo modo, l’IA sovrintende alla capacità dei responsabili della sicurezza di rilevare e contrastare alcune delle minacce informatiche più avanzate. Ecco perché dobbiamo affidarci all’intelligenza artificiale, che ha il potere di proteggere l’infrastruttura digitale su cui si basano l’intero sistema sanitario, la democrazia e i servizi critici. L’AI ha già dimostrato, ad esempio, di essere in grado di fermare un attacco ransomware in atto, e lo ha fatto consentendo di rivelare le campagne di spionaggio più sottili promosse da alcune Nazioni, senza che si rendesse necessario l’intervento umano.
Tuttavia, ci vuole tempo perché le persone imparino a fidarsi così tanto della tecnologia da consentire che processi democratici e infrastrutture critiche siano protetti in maniera totalmente autonoma. Per non rischiare che l’IA porti a ulteriori risentimenti e diffidenze, chi innova dovrà prendere atto del percorso che è necessario avviare e integrare nelle tecnologie del futuro delle funzionalità che alimentino la fiducia degli esseri umani negli algoritmi.

Negli ultimi 200 anni abbiamo assistito al susseguirsi di un turbinio di invenzioni tecnologiche. Gli aeroplani ci hanno permesso di eliminare le distanze, la risonanza magnetica ci ha consentito di esplorare i meccanismi più nascosti del nostro cervello, Internet ha reso tutto più facile da reperire e ora siamo più connessi che mai.
I limiti della nostra vita fisica sono sempre meno definiti, tanto più ci avviciniamo alla realtà virtuale, e la nostra dipendenza dalle app e dai servizi diventa totale. Eppure, tra lo scandalo di Cambridge Analytica e il famoso Panama Papers, nella società moderna si sta rapidamente diffondendo una mancanza di fiducia generale nella tecnologia che diventa un ulteriore punto di forza per i criminali informatici, permettendo loro di realizzare facili guadagni.
Le informazioni riservate di politici e diplomatici, un tempo del tutto al sicuro, oggi vengono estorte ed esposte pubblicamente online e più dettagli segreti rivelano, più gli hacker sono in grado di manipolare l’opinione pubblica.
Un trend pericoloso, che oggi gli Stati stessi tendono a cavalcare. Lo dimostra, ad esempio, il report di Robert Mueller che contiene “prove decisive” di come la Russia abbia interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016, attraverso una campagna coordinata di disinformazione e tramite l’hacking delle email del team elettorale di Hillary Clinton. Oltre a diffondere una generale sfiducia nella capacità delle aziende private di proteggere i dati, questa interferenza calcolata tende a manipolare le opinioni dei singoli cittadini, distruggendo la fiducia nel sistema vero e proprio della democrazia.
Politica a parte, minare la fiducia oggi diventa una questione che ha a che fare sempre più con la vita privata di ogni singolo cittadino; di recente, Singapore è stata vittima di tre gravi data breach in ambito sanitario, l’ultima delle quali ha implicato l’accesso illegale a 800.000 dati personali appartenenti a donatori di sangue. La successione degli attacchi e la loro portata ha alimentato timori crescenti rispetto alla capacità del Paese di proteggere le informazioni sensibili della sua popolazione.
Anche il sistema sanitario nazionale britannico ha subito un violento attacco hacker lo scorso anno ad opera del ransomware Wannacry, a testimonianza della crescente fragilità di servizi critici, sempre più digitalizzati. L’infrastruttura che sostiene i servizi, infatti, è stata anch’essa rivoluzionata dalla tecnologia moderna: in risposta alla crescente consapevolezza e confidenza dei consumatori, la tecnologia ha consentito al settore energetico e a quello delle utility di offrire servizi più affidabili, di migliore qualità e maggiormente sostenibili. Eppure, nel 2015, un sofisticato attacco informatico alla rete elettrica dell’Ucraina ha causato un black-out in tutta Kiev, lasciando i cittadini al buio per oltre 6 ore. In definitiva, è proprio la trasformazione digitale che permea la nostra epoca ad averci traghettato in un’era in cui i rischi informatici per le infrastrutture possono tradursi in effetti tangibili sul mondo fisico.
In un contesto così critico, la diffusione capillare della tecnologia in tutti gli aspetti della società comporta un onere supplementare per gli Stati che devono cercare urgentemente di ricostruire la fiducia dei cittadini nella propria capacità di proteggere i dati e offrire servizi affidabili. Se da una parte l’abitudine pericolosa e diffusa di prendere in considerazione la sicurezza solo a posteriori ha innegabilmente reso più complesse le sfide di sicurezza, la soluzione non può di certo essere il tornare indietro, all’era analogica.
Le sfide della cyber difesa si possono e si devono necessariamente affrontare, e la chiave per farlo è l’innovazione. È tempo di far sì che la tecnologia stessa diventi parte della soluzione e questo può avvenire solo con l’intelligenza artificiale.
L’essere umano, infatti, rimane l’anello debole e il maggiore rischio in termini di sicurezza, per questo gli attacchi di spear-phishing, cioè la pratica di infettare i sistemi tramite l’invio di malware via posta elettronica ai dipendenti meno attenti, continuano a essere il modo più efficace di infiltrarsi in un’organizzazione.
A differenza degli esser umani,l’intelligenza artificiale è sempre attiva: può elaborare serie di dati molto vaste e trarre insight significativi in pochi secondi. In questo modo, l’IA sovrintende alla capacità dei responsabili della sicurezza di rilevare e contrastare alcune delle minacce informatiche più avanzate. Ecco perché dobbiamo affidarci all’intelligenza artificiale, che ha il potere di proteggere l’infrastruttura digitale su cui si basano l’intero sistema sanitario, la democrazia e i servizi critici. L’AI ha già dimostrato, ad esempio, di essere in grado di fermare un attacco ransomware in atto, e lo ha fatto consentendo di rivelare le campagne di spionaggio più sottili promosse da alcune Nazioni, senza che si rendesse necessario l’intervento umano.
Tuttavia, ci vuole tempo perché le persone imparino a fidarsi così tanto della tecnologia da consentire che processi democratici e infrastrutture critiche siano protetti in maniera totalmente autonoma. Per non rischiare che l’IA porti a ulteriori risentimenti e diffidenze, chi innova dovrà prendere atto del percorso che è necessario avviare e integrare nelle tecnologie del futuro delle funzionalità che alimentino la fiducia degli esseri umani negli algoritmi.

Negli ultimi 200 anni abbiamo assistito al susseguirsi di un turbinio di invenzioni tecnologiche. Gli aeroplani ci hanno permesso di eliminare le distanze, la risonanza magnetica ci ha consentito di esplorare i meccanismi più nascosti del nostro cervello, Internet ha reso tutto più facile da reperire e ora siamo più connessi che mai.
I limiti della nostra vita fisica sono sempre meno definiti, tanto più ci avviciniamo alla realtà virtuale, e la nostra dipendenza dalle app e dai servizi diventa totale. Eppure, tra lo scandalo di Cambridge Analytica e il famoso Panama Papers, nella società moderna si sta rapidamente diffondendo una mancanza di fiducia generale nella tecnologia che diventa un ulteriore punto di forza per i criminali informatici, permettendo loro di realizzare facili guadagni.
Le informazioni riservate di politici e diplomatici, un tempo del tutto al sicuro, oggi vengono estorte ed esposte pubblicamente online e più dettagli segreti rivelano, più gli hacker sono in grado di manipolare l’opinione pubblica.
Un trend pericoloso, che oggi gli Stati stessi tendono a cavalcare. Lo dimostra, ad esempio, il report di Robert Mueller che contiene “prove decisive” di come la Russia abbia interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016, attraverso una campagna coordinata di disinformazione e tramite l’hacking delle email del team elettorale di Hillary Clinton. Oltre a diffondere una generale sfiducia nella capacità delle aziende private di proteggere i dati, questa interferenza calcolata tende a manipolare le opinioni dei singoli cittadini, distruggendo la fiducia nel sistema vero e proprio della democrazia.
Politica a parte, minare la fiducia oggi diventa una questione che ha a che fare sempre più con la vita privata di ogni singolo cittadino; di recente, Singapore è stata vittima di tre gravi data breach in ambito sanitario, l’ultima delle quali ha implicato l’accesso illegale a 800.000 dati personali appartenenti a donatori di sangue. La successione degli attacchi e la loro portata ha alimentato timori crescenti rispetto alla capacità del Paese di proteggere le informazioni sensibili della sua popolazione.
Anche il sistema sanitario nazionale britannico ha subito un violento attacco hacker lo scorso anno ad opera del ransomware Wannacry, a testimonianza della crescente fragilità di servizi critici, sempre più digitalizzati. L’infrastruttura che sostiene i servizi, infatti, è stata anch’essa rivoluzionata dalla tecnologia moderna: in risposta alla crescente consapevolezza e confidenza dei consumatori, la tecnologia ha consentito al settore energetico e a quello delle utility di offrire servizi più affidabili, di migliore qualità e maggiormente sostenibili. Eppure, nel 2015, un sofisticato attacco informatico alla rete elettrica dell’Ucraina ha causato un black-out in tutta Kiev, lasciando i cittadini al buio per oltre 6 ore. In definitiva, è proprio la trasformazione digitale che permea la nostra epoca ad averci traghettato in un’era in cui i rischi informatici per le infrastrutture possono tradursi in effetti tangibili sul mondo fisico.
In un contesto così critico, la diffusione capillare della tecnologia in tutti gli aspetti della società comporta un onere supplementare per gli Stati che devono cercare urgentemente di ricostruire la fiducia dei cittadini nella propria capacità di proteggere i dati e offrire servizi affidabili. Se da una parte l’abitudine pericolosa e diffusa di prendere in considerazione la sicurezza solo a posteriori ha innegabilmente reso più complesse le sfide di sicurezza, la soluzione non può di certo essere il tornare indietro, all’era analogica.
Le sfide della cyber difesa si possono e si devono necessariamente affrontare, e la chiave per farlo è l’innovazione. È tempo di far sì che la tecnologia stessa diventi parte della soluzione e questo può avvenire solo con l’intelligenza artificiale.
L’essere umano, infatti, rimane l’anello debole e il maggiore rischio in termini di sicurezza, per questo gli attacchi di spear-phishing, cioè la pratica di infettare i sistemi tramite l’invio di malware via posta elettronica ai dipendenti meno attenti, continuano a essere il modo più efficace di infiltrarsi in un’organizzazione.
A differenza degli esser umani,l’intelligenza artificiale è sempre attiva: può elaborare serie di dati molto vaste e trarre insight significativi in pochi secondi. In questo modo, l’IA sovrintende alla capacità dei responsabili della sicurezza di rilevare e contrastare alcune delle minacce informatiche più avanzate. Ecco perché dobbiamo affidarci all’intelligenza artificiale, che ha il potere di proteggere l’infrastruttura digitale su cui si basano l’intero sistema sanitario, la democrazia e i servizi critici. L’AI ha già dimostrato, ad esempio, di essere in grado di fermare un attacco ransomware in atto, e lo ha fatto consentendo di rivelare le campagne di spionaggio più sottili promosse da alcune Nazioni, senza che si rendesse necessario l’intervento umano.
Tuttavia, ci vuole tempo perché le persone imparino a fidarsi così tanto della tecnologia da consentire che processi democratici e infrastrutture critiche siano protetti in maniera totalmente autonoma. Per non rischiare che l’IA porti a ulteriori risentimenti e diffidenze, chi innova dovrà prendere atto del percorso che è necessario avviare e integrare nelle tecnologie del futuro delle funzionalità che alimentino la fiducia degli esseri umani negli algoritmi.

Negli ultimi 200 anni abbiamo assistito al susseguirsi di un turbinio di invenzioni tecnologiche. Gli aeroplani ci hanno permesso di eliminare le distanze, la risonanza magnetica ci ha consentito di esplorare i meccanismi più nascosti del nostro cervello, Internet ha reso tutto più facile da reperire e ora siamo più connessi che mai.
I limiti della nostra vita fisica sono sempre meno definiti, tanto più ci avviciniamo alla realtà virtuale, e la nostra dipendenza dalle app e dai servizi diventa totale. Eppure, tra lo scandalo di Cambridge Analytica e il famoso Panama Papers, nella società moderna si sta rapidamente diffondendo una mancanza di fiducia generale nella tecnologia che diventa un ulteriore punto di forza per i criminali informatici, permettendo loro di realizzare facili guadagni.
Le informazioni riservate di politici e diplomatici, un tempo del tutto al sicuro, oggi vengono estorte ed esposte pubblicamente online e più dettagli segreti rivelano, più gli hacker sono in grado di manipolare l’opinione pubblica.
Un trend pericoloso, che oggi gli Stati stessi tendono a cavalcare. Lo dimostra, ad esempio, il report di Robert Mueller che contiene “prove decisive” di come la Russia abbia interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016, attraverso una campagna coordinata di disinformazione e tramite l’hacking delle email del team elettorale di Hillary Clinton. Oltre a diffondere una generale sfiducia nella capacità delle aziende private di proteggere i dati, questa interferenza calcolata tende a manipolare le opinioni dei singoli cittadini, distruggendo la fiducia nel sistema vero e proprio della democrazia.
Politica a parte, minare la fiducia oggi diventa una questione che ha a che fare sempre più con la vita privata di ogni singolo cittadino; di recente, Singapore è stata vittima di tre gravi data breach in ambito sanitario, l’ultima delle quali ha implicato l’accesso illegale a 800.000 dati personali appartenenti a donatori di sangue. La successione degli attacchi e la loro portata ha alimentato timori crescenti rispetto alla capacità del Paese di proteggere le informazioni sensibili della sua popolazione.
Anche il sistema sanitario nazionale britannico ha subito un violento attacco hacker lo scorso anno ad opera del ransomware Wannacry, a testimonianza della crescente fragilità di servizi critici, sempre più digitalizzati. L’infrastruttura che sostiene i servizi, infatti, è stata anch’essa rivoluzionata dalla tecnologia moderna: in risposta alla crescente consapevolezza e confidenza dei consumatori, la tecnologia ha consentito al settore energetico e a quello delle utility di offrire servizi più affidabili, di migliore qualità e maggiormente sostenibili. Eppure, nel 2015, un sofisticato attacco informatico alla rete elettrica dell’Ucraina ha causato un black-out in tutta Kiev, lasciando i cittadini al buio per oltre 6 ore. In definitiva, è proprio la trasformazione digitale che permea la nostra epoca ad averci traghettato in un’era in cui i rischi informatici per le infrastrutture possono tradursi in effetti tangibili sul mondo fisico.
In un contesto così critico, la diffusione capillare della tecnologia in tutti gli aspetti della società comporta un onere supplementare per gli Stati che devono cercare urgentemente di ricostruire la fiducia dei cittadini nella propria capacità di proteggere i dati e offrire servizi affidabili. Se da una parte l’abitudine pericolosa e diffusa di prendere in considerazione la sicurezza solo a posteriori ha innegabilmente reso più complesse le sfide di sicurezza, la soluzione non può di certo essere il tornare indietro, all’era analogica.
Le sfide della cyber difesa si possono e si devono necessariamente affrontare, e la chiave per farlo è l’innovazione. È tempo di far sì che la tecnologia stessa diventi parte della soluzione e questo può avvenire solo con l’intelligenza artificiale.
L’essere umano, infatti, rimane l’anello debole e il maggiore rischio in termini di sicurezza, per questo gli attacchi di spear-phishing, cioè la pratica di infettare i sistemi tramite l’invio di malware via posta elettronica ai dipendenti meno attenti, continuano a essere il modo più efficace di infiltrarsi in un’organizzazione.
A differenza degli esser umani,l’intelligenza artificiale è sempre attiva: può elaborare serie di dati molto vaste e trarre insight significativi in pochi secondi. In questo modo, l’IA sovrintende alla capacità dei responsabili della sicurezza di rilevare e contrastare alcune delle minacce informatiche più avanzate. Ecco perché dobbiamo affidarci all’intelligenza artificiale, che ha il potere di proteggere l’infrastruttura digitale su cui si basano l’intero sistema sanitario, la democrazia e i servizi critici. L’AI ha già dimostrato, ad esempio, di essere in grado di fermare un attacco ransomware in atto, e lo ha fatto consentendo di rivelare le campagne di spionaggio più sottili promosse da alcune Nazioni, senza che si rendesse necessario l’intervento umano.
Tuttavia, ci vuole tempo perché le persone imparino a fidarsi così tanto della tecnologia da consentire che processi democratici e infrastrutture critiche siano protetti in maniera totalmente autonoma. Per non rischiare che l’IA porti a ulteriori risentimenti e diffidenze, chi innova dovrà prendere atto del percorso che è necessario avviare e integrare nelle tecnologie del futuro delle funzionalità che alimentino la fiducia degli esseri umani negli algoritmi.

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Le informazioni riservate di politici e diplomatici, un tempo del tutto al sicuro, oggi vengono estorte ed esposte pubblicamente online e più dettagli segreti rivelano, più gli hacker sono in grado di manipolare l’opinione pubblica.
Un trend pericoloso, che oggi gli Stati stessi tendono a cavalcare. Lo dimostra, ad esempio, il report di Robert Mueller che contiene “prove decisive” di come la Russia abbia interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016, attraverso una campagna coordinata di disinformazione e tramite l’hacking delle email del team elettorale di Hillary Clinton. Oltre a diffondere una generale sfiducia nella capacità delle aziende private di proteggere i dati, questa interferenza calcolata tende a manipolare le opinioni dei singoli cittadini, distruggendo la fiducia nel sistema vero e proprio della democrazia.
Politica a parte, minare la fiducia oggi diventa una questione che ha a che fare sempre più con la vita privata di ogni singolo cittadino; di recente, Singapore è stata vittima di tre gravi data breach in ambito sanitario, l’ultima delle quali ha implicato l’accesso illegale a 800.000 dati personali appartenenti a donatori di sangue. La successione degli attacchi e la loro portata ha alimentato timori crescenti rispetto alla capacità del Paese di proteggere le informazioni sensibili della sua popolazione.
Anche il sistema sanitario nazionale britannico ha subito un violento attacco hacker lo scorso anno ad opera del ransomware Wannacry, a testimonianza della crescente fragilità di servizi critici, sempre più digitalizzati. L’infrastruttura che sostiene i servizi, infatti, è stata anch’essa rivoluzionata dalla tecnologia moderna: in risposta alla crescente consapevolezza e confidenza dei consumatori, la tecnologia ha consentito al settore energetico e a quello delle utility di offrire servizi più affidabili, di migliore qualità e maggiormente sostenibili. Eppure, nel 2015, un sofisticato attacco informatico alla rete elettrica dell’Ucraina ha causato un black-out in tutta Kiev, lasciando i cittadini al buio per oltre 6 ore. In definitiva, è proprio la trasformazione digitale che permea la nostra epoca ad averci traghettato in un’era in cui i rischi informatici per le infrastrutture possono tradursi in effetti tangibili sul mondo fisico.
In un contesto così critico, la diffusione capillare della tecnologia in tutti gli aspetti della società comporta un onere supplementare per gli Stati che devono cercare urgentemente di ricostruire la fiducia dei cittadini nella propria capacità di proteggere i dati e offrire servizi affidabili. Se da una parte l’abitudine pericolosa e diffusa di prendere in considerazione la sicurezza solo a posteriori ha innegabilmente reso più complesse le sfide di sicurezza, la soluzione non può di certo essere il tornare indietro, all’era analogica.
Le sfide della cyber difesa si possono e si devono necessariamente affrontare, e la chiave per farlo è l’innovazione. È tempo di far sì che la tecnologia stessa diventi parte della soluzione e questo può avvenire solo con l’intelligenza artificiale.
L’essere umano, infatti, rimane l’anello debole e il maggiore rischio in termini di sicurezza, per questo gli attacchi di spear-phishing, cioè la pratica di infettare i sistemi tramite l’invio di malware via posta elettronica ai dipendenti meno attenti, continuano a essere il modo più efficace di infiltrarsi in un’organizzazione.
A differenza degli esser umani,l’intelligenza artificiale è sempre attiva: può elaborare serie di dati molto vaste e trarre insight significativi in pochi secondi. In questo modo, l’IA sovrintende alla capacità dei responsabili della sicurezza di rilevare e contrastare alcune delle minacce informatiche più avanzate. Ecco perché dobbiamo affidarci all’intelligenza artificiale, che ha il potere di proteggere l’infrastruttura digitale su cui si basano l’intero sistema sanitario, la democrazia e i servizi critici. L’AI ha già dimostrato, ad esempio, di essere in grado di fermare un attacco ransomware in atto, e lo ha fatto consentendo di rivelare le campagne di spionaggio più sottili promosse da alcune Nazioni, senza che si rendesse necessario l’intervento umano.
Tuttavia, ci vuole tempo perché le persone imparino a fidarsi così tanto della tecnologia da consentire che processi democratici e infrastrutture critiche siano protetti in maniera totalmente autonoma. Per non rischiare che l’IA porti a ulteriori risentimenti e diffidenze, chi innova dovrà prendere atto del percorso che è necessario avviare e integrare nelle tecnologie del futuro delle funzionalità che alimentino la fiducia degli esseri umani negli algoritmi.

Intermezzo promozionale ... continua la lettura dopo il box:

Negli ultimi 200 anni abbiamo assistito al susseguirsi di un turbinio di invenzioni tecnologiche. Gli aeroplani ci hanno permesso di eliminare le distanze, la risonanza magnetica ci ha consentito di esplorare i meccanismi più nascosti del nostro cervello, Internet ha reso tutto più facile da reperire e ora siamo più connessi che mai.
I limiti della nostra vita fisica sono sempre meno definiti, tanto più ci avviciniamo alla realtà virtuale, e la nostra dipendenza dalle app e dai servizi diventa totale. Eppure, tra lo scandalo di Cambridge Analytica e il famoso Panama Papers, nella società moderna si sta rapidamente diffondendo una mancanza di fiducia generale nella tecnologia che diventa un ulteriore punto di forza per i criminali informatici, permettendo loro di realizzare facili guadagni.
Le informazioni riservate di politici e diplomatici, un tempo del tutto al sicuro, oggi vengono estorte ed esposte pubblicamente online e più dettagli segreti rivelano, più gli hacker sono in grado di manipolare l’opinione pubblica.
Un trend pericoloso, che oggi gli Stati stessi tendono a cavalcare. Lo dimostra, ad esempio, il report di Robert Mueller che contiene “prove decisive” di come la Russia abbia interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016, attraverso una campagna coordinata di disinformazione e tramite l’hacking delle email del team elettorale di Hillary Clinton. Oltre a diffondere una generale sfiducia nella capacità delle aziende private di proteggere i dati, questa interferenza calcolata tende a manipolare le opinioni dei singoli cittadini, distruggendo la fiducia nel sistema vero e proprio della democrazia.
Politica a parte, minare la fiducia oggi diventa una questione che ha a che fare sempre più con la vita privata di ogni singolo cittadino; di recente, Singapore è stata vittima di tre gravi data breach in ambito sanitario, l’ultima delle quali ha implicato l’accesso illegale a 800.000 dati personali appartenenti a donatori di sangue. La successione degli attacchi e la loro portata ha alimentato timori crescenti rispetto alla capacità del Paese di proteggere le informazioni sensibili della sua popolazione.
Anche il sistema sanitario nazionale britannico ha subito un violento attacco hacker lo scorso anno ad opera del ransomware Wannacry, a testimonianza della crescente fragilità di servizi critici, sempre più digitalizzati. L’infrastruttura che sostiene i servizi, infatti, è stata anch’essa rivoluzionata dalla tecnologia moderna: in risposta alla crescente consapevolezza e confidenza dei consumatori, la tecnologia ha consentito al settore energetico e a quello delle utility di offrire servizi più affidabili, di migliore qualità e maggiormente sostenibili. Eppure, nel 2015, un sofisticato attacco informatico alla rete elettrica dell’Ucraina ha causato un black-out in tutta Kiev, lasciando i cittadini al buio per oltre 6 ore. In definitiva, è proprio la trasformazione digitale che permea la nostra epoca ad averci traghettato in un’era in cui i rischi informatici per le infrastrutture possono tradursi in effetti tangibili sul mondo fisico.
In un contesto così critico, la diffusione capillare della tecnologia in tutti gli aspetti della società comporta un onere supplementare per gli Stati che devono cercare urgentemente di ricostruire la fiducia dei cittadini nella propria capacità di proteggere i dati e offrire servizi affidabili. Se da una parte l’abitudine pericolosa e diffusa di prendere in considerazione la sicurezza solo a posteriori ha innegabilmente reso più complesse le sfide di sicurezza, la soluzione non può di certo essere il tornare indietro, all’era analogica.
Le sfide della cyber difesa si possono e si devono necessariamente affrontare, e la chiave per farlo è l’innovazione. È tempo di far sì che la tecnologia stessa diventi parte della soluzione e questo può avvenire solo con l’intelligenza artificiale.
L’essere umano, infatti, rimane l’anello debole e il maggiore rischio in termini di sicurezza, per questo gli attacchi di spear-phishing, cioè la pratica di infettare i sistemi tramite l’invio di malware via posta elettronica ai dipendenti meno attenti, continuano a essere il modo più efficace di infiltrarsi in un’organizzazione.
A differenza degli esser umani,l’intelligenza artificiale è sempre attiva: può elaborare serie di dati molto

vaste e trarre insight significativi in pochi secondi. In questo modo, l’IA sovrintende alla capacità dei responsabili della sicurezza di rilevare e contrastare alcune delle minacce informatiche più avanzate. Ecco perché dobbiamo affidarci all’intelligenza artificiale, che ha il potere di proteggere l’infrastruttura digitale su cui si basano l’intero sistema sanitario, la democrazia e i servizi critici. L’AI ha già dimostrato, ad esempio, di essere in grado di fermare un attacco ransomware in atto, e lo ha fatto consentendo di rivelare le campagne di spionaggio più sottili promosse da alcune Nazioni, senza che si rendesse necessario l’intervento umano.
Tuttavia, ci vuole tempo perché le persone imparino a fidarsi così tanto della tecnologia da consentire che processi democratici e infrastrutture critiche siano protetti in maniera totalmente autonoma. Per non rischiare che l’IA porti a ulteriori risentimenti e diffidenze, chi innova dovrà prendere atto del percorso che è necessario avviare e integrare nelle tecnologie del futuro delle funzionalità che alimentino la fiducia degli esseri umani negli algoritmi.

Negli ultimi 200 anni abbiamo assistito al susseguirsi di un turbinio di invenzioni tecnologiche. Gli aeroplani ci hanno permesso di eliminare le distanze, la risonanza magnetica ci ha consentito di esplorare i meccanismi più nascosti del nostro cervello, Internet ha reso tutto più facile da reperire e ora siamo più connessi che mai.
I limiti della nostra vita fisica sono sempre meno definiti, tanto più ci avviciniamo alla realtà virtuale, e la nostra dipendenza dalle app e dai servizi diventa totale. Eppure, tra lo scandalo di Cambridge Analytica e il famoso Panama Papers, nella società moderna si sta rapidamente diffondendo una mancanza di fiducia generale nella tecnologia che diventa un ulteriore punto di forza per i criminali informatici, permettendo loro di realizzare facili guadagni.
Le informazioni riservate di politici e diplomatici, un tempo del tutto al sicuro, oggi vengono estorte ed esposte pubblicamente online e più dettagli segreti rivelano, più gli hacker sono in grado di manipolare l’opinione pubblica.
Un trend pericoloso, che oggi gli Stati stessi tendono a cavalcare. Lo dimostra, ad esempio, il report di Robert Mueller che contiene “prove decisive” di come la Russia abbia interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016, attraverso una campagna coordinata di disinformazione e tramite l’hacking delle email del team elettorale di Hillary Clinton. Oltre a diffondere una generale sfiducia nella capacità delle aziende private di proteggere i dati, questa interferenza calcolata tende a manipolare le opinioni dei singoli cittadini, distruggendo la fiducia nel sistema vero e proprio della democrazia.
Politica a parte, minare la fiducia oggi diventa una questione che ha a che fare sempre più con la vita privata di ogni singolo cittadino; di recente, Singapore è stata vittima di tre gravi data breach in ambito sanitario, l’ultima delle quali ha implicato l’accesso illegale a 800.000 dati personali appartenenti a donatori di sangue. La successione degli attacchi e la loro portata ha alimentato timori crescenti rispetto alla capacità del Paese di proteggere le informazioni sensibili della sua popolazione.
Anche il sistema sanitario nazionale britannico ha subito un violento attacco hacker lo scorso anno ad opera del ransomware Wannacry, a testimonianza della crescente fragilità di servizi critici, sempre più digitalizzati. L’infrastruttura che sostiene i servizi, infatti, è stata anch’essa rivoluzionata dalla tecnologia moderna: in risposta alla crescente consapevolezza e confidenza dei consumatori, la tecnologia ha consentito al settore energetico e a quello delle utility di offrire servizi più affidabili, di migliore qualità e maggiormente sostenibili. Eppure, nel 2015, un sofisticato attacco informatico alla rete elettrica dell’Ucraina ha causato un black-out in tutta Kiev, lasciando i cittadini al buio per oltre 6 ore. In definitiva, è proprio la trasformazione digitale che permea la nostra epoca ad averci traghettato in un’era in cui i rischi informatici per le infrastrutture possono tradursi in effetti tangibili sul mondo fisico.
In un contesto così critico, la diffusione capillare della tecnologia in tutti gli aspetti della società comporta un onere supplementare per gli Stati che devono cercare urgentemente di ricostruire la fiducia dei cittadini nella propria capacità di proteggere i dati e offrire servizi affidabili. Se da una parte l’abitudine pericolosa e diffusa di prendere in considerazione la sicurezza solo a posteriori ha innegabilmente reso più complesse le sfide di sicurezza, la soluzione non può di certo essere il tornare indietro, all’era analogica.
Le sfide della cyber difesa si possono e si devono necessariamente affrontare, e la chiave per farlo è l’innovazione. È tempo di far sì che la tecnologia stessa diventi parte della soluzione e questo può avvenire solo con l’intelligenza artificiale.
L’essere umano, infatti, rimane l’anello debole e il maggiore rischio in termini di sicurezza, per questo gli attacchi di spear-phishing, cioè la pratica di infettare i sistemi tramite l’invio di malware via posta elettronica ai dipendenti meno attenti, continuano a essere il modo più efficace di infiltrarsi in un’organizzazione.
A differenza degli esser umani,l’intelligenza artificiale è sempre attiva: può elaborare serie di dati molto vaste e trarre insight significativi in pochi secondi. In questo modo, l’IA sovrintende alla capacità dei responsabili della sicurezza di rilevare e contrastare alcune delle minacce informatiche più avanzate. Ecco perché dobbiamo affidarci all’intelligenza artificiale, che ha il potere di proteggere l’infrastruttura digitale su cui si basano l’intero sistema sanitario, la democrazia e i servizi critici. L’AI ha già dimostrato, ad esempio, di essere in grado di fermare un attacco ransomware in atto, e lo ha fatto consentendo di rivelare le campagne di spionaggio più sottili promosse da alcune Nazioni, senza che si rendesse necessario l’intervento umano.
Tuttavia, ci vuole tempo perché le persone imparino a fidarsi così tanto della tecnologia da consentire che processi democratici e infrastrutture critiche siano protetti in maniera totalmente autonoma. Per non rischiare che l’IA porti a ulteriori risentimenti e diffidenze, chi innova dovrà prendere atto del percorso che è necessario avviare e integrare nelle tecnologie del futuro delle funzionalità che alimentino la fiducia degli esseri umani negli algoritmi.

In conclusione, anche se l’intelligenza artificiale non è di certo la panacea per tutti i mali della società, ritengo che sicuramente svolgerà un ruolo importante permettendoci di contrastare l’erosione della fiducia nelle nostre istituzioni.
In un futuro non troppo lontano, i sistemi di realtà aumentata combinati con i dispositivi wearable ci permetteranno di partecipare virtualmente alle riunioni delle giunte comunali o ai dibattiti su nuove leggi anche da centinaia di chilometri di distanza. Dispositivi di VR, AR e wearable diventeranno sempre più comuni e offriranno opportunità illimitate ai cittadini per potersi impegnare sempre più a fondo nei processi decisionali della politica.
Dovremmo essere entusiasti di ciò che riserverà il futuro, ricordandoci però che il suo vero potenziale potrà essere sbloccato solo dando il giusto valore alla capacità dell’intelligenza artificiale di risolvere i nostri problemi, permettendole in particolare di ricostruire il clima di fiducia nella tecnologia.

Poppy Gustafsson, Co-CEO di Darktrace
In conclusione, anche se l’intelligenza artificiale non è di certo la panacea per tutti i mali della società, ritengo che sicuramente svolgerà un ruolo importante permettendoci di contrastare l’erosione della fiducia nelle nostre istituzioni.
In un futuro non troppo lontano, i sistemi di realtà aumentata combinati con i dispositivi wearable ci permetteranno di partecipare virtualmente alle riunioni delle giunte comunali o ai dibattiti su nuove leggi anche da centinaia di chilometri di distanza. Dispositivi di VR, AR e wearable diventeranno sempre più comuni e offriranno opportunità illimitate ai cittadini per potersi impegnare sempre più a fondo nei processi decisionali della politica.
Dovremmo essere entusiasti di ciò che riserverà il futuro, ricordandoci però che il suo vero potenziale potrà essere sbloccato solo dando il giusto valore alla capacità dell’intelligenza artificiale di risolvere i nostri problemi, permettendole in particolare di ricostruire il clima di fiducia nella tecnologia.

Poppy Gustafsson, Co-CEO di Darktrace

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